Classe 1979, calabrese di origine, il Dottor Giuseppe J. Sciarrone è uno dei protagonisti della neurochirurgia robotica vertebrale. Da un anno, è codirettore del nuovo Centro di Chirurgia Vertebrale e Robotica all’Ospedale Humanitas San Pio X, la prima struttura della Lombardia dotata di una sofisticata attrezzatura robotica e un sistema di navigazione GPS che permettono di intervenire con la massima precisione e la minima invasività nei casi di ernia del disco o spondilolistesi.
Raccontiamo il suo percorso? “Da ragazzino ho cominciato a interessarmi alla medicina folgorato dalla testimonianza del primo chirurgo che eseguì un trapianto di cuore, il famoso Christiann Barnard. L’impatto così forte di questa scienza mi ha spinto a studiare e a cercare risposte sul corpo umano. Così ho frequentato il Liceo Scientifico nella mia città natale, Reggio Calabria, e poi mi sono iscritto a Medicina. Da fautore del rinascimento del Sud, ho scelto l’università di Messina. Sono stati anni molto intensi, di grande studio”.
Come definirebbe, in un’immagine, i primi passi nel mondo della neurochirurgia? “Sono arrivato a questa specializzazione perché il destino mi ha fatto incontrare quello che è stato un mio mentore, il Prof. Puccio Anastasi, che insegnava neuroanatomia come se fosse una poesia. All’epoca, poi, si trattava di una branca molto importante perché il rettore della facoltà era il Prof. Tomasello, responsabile anche della specializzazione. E infatti, se dovessi scegliere un’immagine, punterei su un intervento che ho eseguito con lui: si trattava di un’artrodesi cervicale per via anteriore, un approccio che può essere facile ma che può anche rivelarsi un vero incubo. Di solito, l’aiuto preparava il campo operatorio e poi arrivava il Prof. Tomasello a continuare. Quella volta mi sono occupato io del campo operatorio e mi ricordavo alla perfezione i complimenti del Prof., di solito di poche parole… È stata una specie di scuola militare, in cui vivevo in ospedale. Ma le sfide mi sono sempre piaciute”.
Perché la scelta di occuparsi di chirurgia vertebrale? “All’epoca il neurochirurgo si focalizzava sul cervello, mentre la schiena era territorio dell’ortopedico. Poi l’avvento della microchirurgia e del microscopio chirurgico hanno spostato i riflettori sulle strutture della colonna vertebrale. Era un campo nuovo, dove c’erano grandi spazi e possibilità di esprimersi. Così, ho lasciato la mia comfort zone messinese e sono venuto a Milano, all’Ospedale Fatebenefratelli. Qui ho lavorato con ottimi colleghi e ho fatto tanta palestra sulle patologie vertebrali e sui nuovi approcci. In più, ho iniziato a conoscere le aziende che, in questo settore, si occupano di tecnologia e innovazione”.
Come stanno cambiando, negli ultimi anni, i pazienti e le patologie che tratta quotidianamente? “Siamo di fronte a uno scenario in costante evoluzione. Oggi il benessere e la qualità della vita sono diventati fondamentali e la gente reclama giustamente il diritto di sentirsi in forma. A questo aspetto, dobbiamo aggiungere i progressi dati dalla ricerca e dalla diagnostica per immagini che hanno alzato il livello di conoscenza della colonna vertebrale. Pensiamo, per esempio, alla protesi sempre più compatibili con l’organismo o a risonanze e Tac estremamente precise. Tutto questo significa, in concreto, che si è abbassata l’età media dei pazienti e che i disturbi sono trasversali anche per genere. Quindi visito e opero molte più donne e uomini under 40 che non si rassegnano a catalogare il dolore come un brutto mal di schiena ma vogliono scoprirne la causa e risolvere il problema”.
Lei è uno dei talenti della chirurgia vertebrale robotica: cosa significa oggi ‘muoversi’ in questo scenario così innovativo? “Quando la robotica è arrivata in Italia è stata quasi osteggiata perché spesso l’innovazione ha più detrattori che alleati. I neurochirurghi la ritenevano inutile e io stesso, che per 15 anni mi ero mosso nel campo della chirurgia tradizionale, ero perplesso. Poi, visto che amo andare oltre i limiti, mi sono buttato in questa avventura. Oggi posso dire che la robotica ha sistematizzato il mio lavoro, rendendo gli interventi meno invasivi, più veloci e precisi, con grandi benefici per i pazienti. La formazione, ovviamente, ricopre un ruolo cruciale, così come il talento del chirurgo. Perché, alla fine, in futuro tutti sapranno lavorare con il robot ma la mano e la mente del medico faranno la differenza”.
Lei ha già all’attivo più di 10.000 interventi: quali sono stati quelli più ‘sfidanti’? “Tutti mi rimangono nel cuore, dove conservo il ricordo di ogni paziente. Ma c’è un’operazione a cui sono davvero legato perché il mio lavoro ha fatto davvero la differenza. Riguarda una ragazzina di 14 anni, di Bratislava, che soffriva di una importante scoliosi. I famigliari si erano rivolti a diversi chirurghi ma tutti si erano rifiutati di operarla, intanto la deformità progrediva e lei soffriva molto. Così ho deciso di aiutarla. È stato un intervento molto importante: ho ricostruito la colonna con un doppio approccio, transtoracico e posteriore. A distanza di 30 giorni non si vedevano più le cicatrici. Non solo, lei ha ripreso a danzare e dopo sei mesi ha vinto il Grand Prix di danza classica del suo Paese e dopo un anno ha addirittura conquistato la medaglia d’oro ai Campionati del Mondo under 14”.