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Innovazioni tecnologiche e approcci multidisciplinari cambiano la cura dell’Epatocarcinoma

PERCORSI DI CURA PERSONALIZZATI, MIGLIORAMENTI TECNOLOGICI E NUOVE ARMI TERAPEUTICHE CONSENTONO DI GESTIRE CON MAGGIORE SUCCESSO I PAZIENTI AFFETTI DA QUESTA NEOPLASIA, AD OGGI ANCORA ALTAMENTE LETALE.

Il Prof. Antonio Benedetti è Presidente FISMAD (Federazione Italiana delle Società delle Malattie dell’Apparato Digerente) e SIGE (Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva) e Direttore della Clinica di Gastroenterologia, Epatologia ed Endoscopia d’Urgenza dell’Università Politecnica delle Marche, Facoltà di Medicina e Azienda Ospedaliera-Universitaria, Ospedali Riuniti di Ancona, una realtà consoli data da una storia ultratrentennale al servizio dei pazienti con problematiche gastroenterologiche ed epatiche complesse. Nella stessa UO, il Dott. Giuseppe Tarantino gestisce, con altri, prioritariamente, il settore delle Epatiti Croniche e dell’Epatocarcinoma (HCC).

Prof. Antonio Benedetti Direttore Clinica di Gastroenterologia, Epatologia ed Endoscopia Digestiva d’Urgenza Università Politecnica delle Marche e AOU
Professore, come sta cambiando l’eziologia del Carcinoma Epatocellulare (HCC)?

“Questa patologia rappresenta il più frequente tumore primitivo del fegato e un importante problema di Sanità Pubblica. L’Italia è il primo paese europeo per incidenza con 13.000 nuovi casi ogni anno e l’HCC si posiziona tra le prime cinque cause di morte per neoplasia in Italia.

Il problema clinico principale è rappresentato dai bassi tassi di sopravvivenza: nonostante i miglioramenti nella diagnosi e nella gestione clinica, infatti, il rapporto tra incidenza e mortalità è simile a 15 anni fa. L’HCC insorge nella maggior parte dei casi su un fegato cirrotico.

Questa considerazione clinica dovrebbe portare ad una diagnosi precoce perché tutti i pazienti cirrotici dovrebbero essere sottoposti a sorveglianza mediante l’ecografia a cadenza semestrale. In realtà, nella pratica clinica, solo il 60% degli HCC viene diagnosticata in questo ambito.

Questo perché nell’ultimo decennio stiamo assistendo ad un drammatico cambiamento nell’epidemiologia dell’HCC: dal 2000 al 2018 l’eziologia infiammatoria virus-relata (HCV, HBV) è progressivamente passata dal 77 al 57% come causa associata di danno epatico cronico e di HCC, lasciando spazio ad un crescente impatto delle eziologie “non virali” (metabolica o alcol-relata).

Ciò è il risultato delle strategie di prevenzione della diffusione delle infezioni da virus epatotropi e all’efficacia delle terapie antivirali e, di contro, all’abuso etilico e agli eccessi alimentari associati alla sedentarietà tipici dei paesi sviluppati. In questi casi, i pazienti sono sottoposti con minore frequenza alla sorveglianza ecografica, con il risultato di diagnosi in una fase molto più avanzata”.

Come sta evolvendo, invece, il paradigma di trattamento dell’HCC?

“Negli ultimi anni si sono osservati cambiamenti importanti nella gestione clinica del paziente, da un lato grazie all’implementazione tecnologica nelle resezioni chirurgiche e nella terapia loco-regionale, dall’altro per un cambio di approccio gestionale.

Se infatti fino a pochissimi anni fa la gestione del paziente veniva regolata dal rigido algoritmo del Barcelona Clinic Liver Cancer, è stato di recente dimostrato che il sistema ITA.LI.CA. (Italian Liver Cancer), una “gerarchia terapeutica” che permette di allocare il singolo paziente al miglior percorso terapeutico tenendo conto di una valutazione globale dello stesso, risulta essere molto più performante per il singolo paziente.

Il progetto richiede un approccio multidisciplinare in cui diverse figure professionali discutono insieme per assicurare ad ogni paziente il proprio e personale programma di cura o di monitoraggio, con il risultato di avere migliori tassi di sopravvivenza”.

Quali sono gli approcci terapeutici oggi a disposizione?

“Si va da trattamenti curativi chirurgici come la resezione/ablazione o il trapianto di fegato, fino a trattamenti “palliativi” farmacologici (terapia sistemica). Nel mezzo di questo ampio ventaglio terapeutico, vi stanno i trattamenti di chemio-embolizzazione trans-arteriosa (TACE) e di radio embolizzazione (TARE), che vengono riservati ai pazienti con neoplasia intermedia avanzata per i quali non vi è indicazione alla resezione e/o al trapianto d’organo.

La terapia sistemica in particolare è riservata ai pazienti con malattia avanzata o extraepatica che conservano un’accettabile funzione epatica residua. Dal 2008 fino al 2017, l’unica molecola approvata per l’HCC avanzato è stata il sorafenib; poi sono state approvate altre due molecole con simile meccanismo di azione per l’utilizzo in II e III linea di trattamento, e, infine, nel 2019-20 è entrata in uso la molecola Lenvatinib per l’utilizzo in prima linea, per la quale è stata dimostrata la non-inferiorità di efficacia rispetto a sorafenib e nella pratica clinica una soddisfacente maneggevolezza e sicurezza.

Questo è stato un importante e storico passo in avanti perché finalmente abbiamo avuto un’alternativa terapeutica da utilizzare nei pazienti con HCC avanzato provando a personalizzare il trattamento in funzione delle esigenze specifiche. La vera rivoluzione, in questo setting, si sta concretizzando oggi con l’introduzione in itinere dell’immunoterapia”.

 

FONTE: Salute&Benessere efocus n°33

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