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Coronavirus e seconda ondata: siamo preparati?

Misure di prevenzione – igiene delle mani, distanziamento e mascherina – e una diagnosi precoce sono gli strumenti ad oggi più efficaci per contenere il diffondersi del virus ancora in circolo.

A parlarcene il Prof. Nicola Petrosillo, Direttore del Dipartimento Clinico e di Ricerca in Malattie Infettive dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Spallanzani, Ospedale che, fin dalla sua nascita, si è impegnato nella cura delle patologie infettive, dalle più classiche all’HIV, dall’Epatite alle grandi epidemie di virus emergenti come la Sars, l’Ebola e oggi il Coronavirus. L’Istituto dispone delle attrezzature e dell’expertise migliori per gestire situazioni di alto isolamento, così come di un laboratorio di altissimo isolamento in grado di fare diagnostica avanzata e di isolare i virus emergenti ad alta contagiosità.

Professore, cos’ha scatenato un’esplosione così acuta di casi e una così alta mortalità in Italia?

“Innanzitutto l’essere un virus nuovo, sconosciuto e diverso da quelli già visti in passato. In più l’Italia è stata il primo Paese in Europa a essere colpito, soprattutto al Nord, con un’ondata di infezioni che è partita probabilmente molto prima, rispetto alla scoperta del paziente 1 di Codogno, e da casi già presenti e non identificati, persone che si sono recate in strutture sanitarie perché stavano male e lì hanno trasmesso l’infezione ad altri pazienti e al personale; l’epidemia si è poi allargata alla popolazione, colpendo soprattutto anziani e persone fragili con patologie pregresse o ospiti di RSA. L’altro aspetto che ha aggravato la situazione è stato il fatto che questa malattia avesse nel suo decorso una grave insufficienza respiratoria che si acuiva nelle persone più fragili e questo ha avuto un grosso impatto sulle strutture ospedaliere, causando grandi difficoltà dal punto di vista organizzativo, terapeutico e di gestione delle altre patologie”.

Qual è la situazione dell’epidemia oggi?

“La strategia del lockdown prima e poi le normative che hanno imposto l’utilizzo delle mascherine, il distanziamento sociale e le campagne di comunicazione sull’importanza di lavarsi le mani, hanno comportato una riduzione della circolazione del virus e dunque del numero dei casi. Grazie a queste misure, seppur molto pesanti a livello sociale ed economico, la situazione è via via migliorata fino a stabilizzarsi, tanto che l’esperienza italiana è stata presa ad esempio da altri Paesi europei. Oggi i casi che registriamo, a fronte di un numero di tamponi elevatissimo, sono di nuovo in aumento a causa dei numerosi focolai familiari verosimilmente causati dai soggetti che, nel corso dell’estate, hanno contratto il virus soprattutto a seguito di scarso rispetto delle misure di prevenzione. Di conseguenza è aumentato il numero di ricoveri in ospedali per polmonite interstiziale e anche quello dei casi più gravi in terapia intensiva. Non abbiamo i numeri di paesi a noi vicini come Spagna e Francia, ma la situazione richiede grande attenzione al fine di prepararci ad un eventuale ulteriore aumento di casi. La situazione non è certamente conclusa e bisogna mantenere alta l’attenzione, ma di certo non è minimamente paragonabile a quanto vissuto tra febbraio-marzo”.

Cosa ha determinato questo cambiamento?

“Non sembrano esserci evidenze scientifiche che dimostrino una modificazione genetica del virus che ne abbia diminuito  la virulenza; il miglioramento sembra piuttosto dovuto alla grande attenzione, che continua a mantenersi elevata nel nostro Paese, alle misure di prevenzione: distanziamento, uso delle mascherine e igiene delle mani”.

Cosa abbiamo imparato rispetto all’inizio della pandemia?

“Innanzitutto a gestire meglio e più precocemente questi pazienti; c’è stato sicuramente un miglioramento delle conoscenze della fisiopatologia e dell’approccio terapeutico: abbiamo imparato che l’utilizzo dell’eparina può prevenire o trattare le micro-embolie polmonari – una delle complicanze dell’infezione; che l’unica terapia veramente efficace è l’ossigeno dato in maniera adeguata e precoce; che in alcuni casi i farmaci antivirali possono dare risultati importanti, così come il cortisone in altri. Oggi possiamo affermare che, a fronte di un eventuale aumento di casi, abbiamo la preparazione a livello di conoscenze e le capacità organizzative – con una rete di Centri Covid da attivare immediatamente – per affrontare prontamente l’emergenza”.

Bambini e Coronavirus: quali i rischi nel riaprire le scuole?

“I bambini sicuramente si possono ammalare ma molto raramente incorrono in complicanze gravi. Il problema è la trasmissione dell’infezione ad adulti e anziani. Dobbiamo capire quanto siamo disposti a rischiare per risolvere un problema che è non solo medico ma anche sociale ed economico. Il rischio zero non esiste ma, guardando anche all’esperienza degli altri Paesi dove le scuole sono già state riaperte, vediamo che si è avuta una percentuale di positivi tra la popolazione afferente alle scuole davvero bassissima. Questo ci porta a dire che i bambini possono tornare in classe, in condizioni ovviamente di sicurezza: controllo della temperatura, presenza a scuola di una figura compente dal punto di vista sanitario, allontanamento immediato del bambino con febbre, campagne di comunicazione mirate sull’importanza delle misure di prevenzione, gestione adeguata dei casi positivi”.

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Contatti

Prof. Nicola Petrosillo

Direttore Dip. Clinico e di Ricerca in Malattie

Infettive INMI L. Spallanzani

Indirizzo: Via Portuense, 292 – 00149 Roma

Tel. 06 55170432

Mail: nicola.petrosillo@inmi.it

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