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Malattie croniche infiammatorie dell’intestino: nuove terapie per una qualità di vita migliore

È questo l’obiettivo finale delle terapie farmacologiche, sia in fase acuta che in quella di mantenimento. Per questo è importante scegliere la cura più adeguata e seguirla nel tempo.

 

A inquadrarci il problema e illustrarci i farmaci biologici, il Prof. Alessandro Armuzzi, Professore Associato di Gastroenterologia alla Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS Università Cattolica di Roma e Responsabile del Centro Nazionale e Internazionale per la diagnosi e la cura delle malattie infiammatorie croniche intestinali.

 

Professore, quanto impattano le malattie croniche infiammatorie dell’intestino sulla qualità di vita dei pazienti?

“Moltissimo. Basti pensare che il picco di insorgenza avviene in un’età in cui l’individuo è pienamente in attività e produttivo, dunque con un impatto notevole su stile e qualità di vita. Se poi queste malattie non vengono tenute sotto controllo, possono causare un danno intestinale progressivo che porta alla lunga a un certo grado di “disability”. Se dunque a livello di mortalità le malattie croniche intestinali non incidono in modo particolare, rispetto ad altre patologie croniche sono senza dubbio quelle maggiormente impattanti sulla qualità della vita”.

 

Quali sono le principali cause che le scatenano?

“Le cause principali sono multifattoriali e dipendono in parte da una predisposizione genetica e in parte da un’alterazione del microbiota intestinale legata a fattori ambientali (in cui potrebbe rientrare anche l’alimentazione), che vanno a influire a livello dell’intestino in un soggetto predisposto facendo esplodere la malattia. Non sempre sono malattie facili da diagnosticare perché spesso non si può fare diagnosi precoce: non ci si accorge del processo infiammatorio, infatti, finché non compaiono le ulcere macroscopiche, altre volte, invece, anche se il soggetto non sta bene, può volerci del tempo a individuare la patologia, soprattutto se non si rivolge subito ad un Centro di Riferimento”.

 

Quali sono le terapie ad oggi disponibili?

“Non esistono cure definitive ma sicuramente la malattia si può trattare per alleviare i sintomi e le lesioni intestinali, garantendo quindi al paziente una qualità di vita migliore. Le terapie farmacologiche variano a seconda delle fasi di malattia e della gravità: si cerca di dosare i farmaci “on time”, ossia intervenendo tempestivamente, in caso uno più leggero non sia efficace, per spegnere il sintomo e tenerlo placato. In linea generale le principali terapie farmacologiche sono i salicilati, i cortisonici, gli immunosoppressori, le small molecules e i farmaci biologici”.

 

Che vantaggi hanno i farmaci biologici?

“Si tratta di anticorpi monoclonali, creati in laboratorio con tecniche di bioingegneria, che hanno il vantaggio di portare a una veloce e immediata scomparsa o comunque attenuazione dei sintomi e a una cosiddetta “guarigione mucosale” delle ulcere, ossia un ripristino dell’integrità della mucosa intestinale, e di conseguenza a una migliore qualità di vita. Oggi abbiamo tre classi a disposizione: gli anti-Tnf-alfa, inclusi i biosimilari – infliximab, adalimumab, golimumab – gli anti-interleuchina 12/23 come ustekinumab, e gli anti-integrine alfa4beta7 come vedolizumab. In particolare ad oggi quest’ultimo è l’unico farmaco selettivo per l’intestino: questo significa che ha un innovativo meccanismo d’azione che si basa sull’inibizione selettiva dei linfociti che transitano e vengono reclutati nell’intestino infiammato. Non solo. Anche a livello di somministrazione, Vedolizumab sarà l’unico farmaco che avrà a disposizione, durante il trattamento, la doppia opzione in endovena o sottocute attraverso una siringa o una penna pre-riempita: il paziente potrà dunque scegliere, in base alle sue preferenze e allo stile di vita, il tipo di modalità che preferisce”.

 

Quanto è importante l’aderenza alla terapia?

“È fondamentale. Continuare a curarsi permette, infatti, ai pazienti di ridurre al minimo se non eliminare del tutto il rischio di recidive assicurandosi una qualità di vita, seppur medicalizzata, comunque ottimale rispetto alle proprie esigenze. Purtroppo, da studi effettuati, abbiamo visto che, soprattutto nelle fasi di mantenimento, della remissione, molti pazienti, sentendosi meglio, tendono ad abbandonare la cura con una riduzione dell’aderenza all’assunzione dei farmaci, soprattutto se orali, che può arrivare fino al 40%. Chiaramente è difficile controllare l’aderenza alle terapie, quindi conta molto il rapporto che si instaura con il medico curante e la motivazione che si riesce a trasmettere al paziente sull’importanza e i benefici delle cure”.

 

Covid e malattie croniche intestinali: c’è qualche correlazione?

“Dai dati raccolti sia in Italia che a livello internazionale non risulta che i pazienti con malattie croniche infiammatorie intestinali corrano più rischi di infettarsi rispetto alla popolazione generale; tuttavia, ci sono alcune categorie di pazienti, tra cui quelli con malattie non tenute sotto controllo o che fanno un uso in eccesso e cronico di cortisone, che sono più esposti a decorsi peggiori di infezione da Covid”.

 

Quali potrebbero essere i prossimi passi nella cura di queste malattie?

“Bisognerebbe puntare a strategie di introduzione di questi farmaci più mirate per ogni singolo paziente, arrivando a una medicina personalizzata per ogni individuo. Nuovi farmaci e diverse modalità di somministrazione, insieme a alcuni tipi di diete alimentari ad oggi in corso di studio potrebbero, inoltre, migliorare ulteriormente la qualità di vita di questi pazienti”.

 

Contatti

Prof. Alessandro Armuzzi

Prof. Associato di Gastroenterologia

Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS Università Cattolica Sacro Cuore

Largo A. Gemelli 8 – 00168 Roma

Tel. 0630155924

Mail: alessandro.armuzzi@policlinicogemelli.it

 

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